Evoluzione Diagnostica Transessualismo

Evoluzione della diagnosi di transessualismo: cosa cambia dal DSM-III al DSM-V

Dalla sua prima apparizione all’interno della nosologia psichiatrica, la categoria diagnostica rappresentativa di quella varianza di genere considerata patologica andò incontro a continue revisioni nel corso delle diverse edizioni del DSM, suscitando una serie infinita di dibattiti e polemiche. Come precedentemente detto, DSM-I (APA, 1952) e DSM-II (APA, 1968) non comprendevano diagnosi specifiche per individui transengender; tali soggetti venivano tacitamente classificati sotto la categoria Deviazioni Sessuali (dove figuravano Omosessualità e Travestitismo): ad esempio, Christine Jorgensen venne soprannominata “un autentico travestito” (Hamburger et al., 1953).

La “questione transessuale” fece il suo ingresso nel Manuale con l’avvento del DSM-III (APA, 1980), edizione che rivoluzionò il sistema classificatorio delle precedenti versioni: abbandonata l’astrattezza della prospettiva psicodinamica, la terza edizione del Manuale abbracciava un approccio descrittivo e ateorico, con diagnosi strutturate in base ai sintomi e fondate sui risultati di ricerche scientifiche.

Oltre a questo fondamentale cambiamento, l’abbondante numero di studi clinici compiuti portò alla creazione di una nuova sezione all’interno del DSM-III, quella dei Disturbi Psicosessuali, suddivisa in quattro sottosezioni:

  • Disturbi di Identità di Genere,
  • Parafilie,
  • Disfunzioni Psicosessuali,
  • Altri Disturbi Psicosessuali.

E’ nel sottoinsieme dei Disturbi di Identità di Genere che trovò il proprio posto il fenomeno transessuale, ramificandosi in tre diagnosi:

Disturbo di Identità di Genere dell’Infanzia (GIDC, acronimo inglese), Transessualismo (relativo ad adolescenti ed adulti) e Disturbo dell’Identità di Genere Atipico, diagnosi che intendeva comprendere individui con DIG meno chiaramente determinabile.

Per le prime due categorie venivano presentati diversi criteri, e solo nel caso del Transessualismo veniva richiesto di specificare anche l’orientamento sessuale del soggetto, potendo scegliere tra asessualità, omosessualità, eterosessualità o non specificato.

Nella versione rivisitata della terza edizione del manuale (APA, 1987), le diagnosi in questione vennero collocate in un’altra sezione, chiamata “Disturbi Solitamente Diagnosticati per la Prima Volta nell’Infanzia, nella Fanciullezza e nell’Adolescenza”.

Nel DSM-III-R fecero inoltre la loro comparsa due nuove diagnosi: il Disturbo dell’Identità di Genere dell’Adolescenza e dell’Età Adulta, Tipo Non Transessuale (GIDAANT, acronimo inglese), che si differenzia per l’assenza della 17 volontà di adottare la “soluzione chirurgica” ( Vaginoplastica e Falloplastica), e il Disturbo dell’Identità di Genere Non Altrimenti Specificato (DIG NAS), categoria che integra e sostituisce il precedente Disturbo dell’Identità di Genere Atipico, pensata per coloro che non avrebbero soddisfatto i criteri per lo specifico disturbo.

Nel successivo DSM IV (APA, 1994) venne effettuato un nuovo cambio di posizione: le diagnosi vennero spostate in un’altra sezione, chiamata Disturbi Sessuali e dell’Identità di Genere.

Le precedenti categorie di GIDC e Transessualismo vennero unite sotto un’unica etichetta diagnostica, quella di Disturbo dell’Identità di Genere, che prevedeva distinti criteri a seconda che si trattasse di bambini o di adolescenti ed adulti; nei criteri diagnostici del DIG per adolescenti ed adulti erano incorporati anche elementi della precedente diagnosi di GIDAANT.

Oltre al DIG, era ancora presente la diagnosi di DIG NAS.

Un’ulteriore modifica consisteva nella richiesta, riservata a soggetti sessualmente maturi, di specificare verso quali persone (di qual sesso) provassero attrazione sessuale, offrendo quattro alternative: maschi, femmine, sia maschi che femmine, né maschi né femmine.

Il DSM-IV-R (APA, 2000) non presentò ulteriori cambiamenti in questa categoria, né strutturali né contenutistici, mantenendo organizzazione e criteri della sua versione precedente.

Nell’ultima edizione del Manuale, il DSM-V (APA, maggio 2013), si assiste ad un radicale cambio di denominazione del disturbo, che viene rinominato Disforia di Genere. Questa modifica segna uno passaggio importante nell’evoluzione della diagnosi in quanto sottolinea il ruolo fondamentale e necessario del distress, senza il quale non si può parlare di disturbo psichiatrico; le innovazioni effettuate riflettono il riconoscimento del fatto che l’incongruenza tra sesso di nascita e identità di genere non sarebbe, di per sé, necessariamente patologica, se non causa un significativo disagio individuale.

L’APA stessa ha dichiarato: «è importante sottolineare che la non conformità di genere non costituisce in sé un disturbo mentale.

L’elemento critico della Disforia di Genere è la presenza di distress clinicamente significativo associato alla condizione» (APA, 2013b).

Molte persone transgender infatti non provano questo forte disagio per la loro condizione e non dovrebbero quindi essere diagnosticate con Disforia di Genere.

All’innovazione del nome si aggiungono anche alcuni chiarimenti nei criteri e la separazione della diagnosi dalle Disfunzioni Sessuali e dai Disturbi Parafiliaci, esistendo nel Manuale un capitolo a parte dedicato unicamente alla Disforia di Genere.

L’attuale diagnosi contiene inoltre due nuove richieste di specificazione: una riguardante la presenza o meno di Disturbi dello Sviluppo Sessuale (DSD, acronimo inglese), l’altra attinente alla condizione post-transizione (per adolescenti ed adulti).

La prima permette l’inclusione di pazienti in condizioni intersessuali, esclusi dalla diagnosi vera e propria del disturbo nelle precedenti edizioni del Manuale; la seconda assicura anche a coloro che hanno già effettuato la transizione e 18 vivono a tempo pieno nel genere desiderato (con o senza cambiamento di genere a livello legale) la possibilità di avere comunque accesso ai trattamenti di sostegno alla transizione di genere.

Il DSM-V contiene inoltre due ulteriori categorie diagnostiche in questo capitolo, applicabili a quei casi in cui sono presentii sintomi caratteristici della disforia di genere, causa di acuto disagio, ma non vengono soddisfatti sufficientemente i criteri per diagnosticare una Disforia di Genere vera e propria: Altra Disforia di Genere Specificata e Disforia di Genere Non Specificata.

Nella prima il clinico specifica la ragione della scelta di tale diagnosi (ad esempio, una breve durata dei sintomi), nella seconda no. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, la nuova diagnosi persegue anche (se non, soprattutto) l’obiettivo di ridurre l’effetto stigmatizzante della terminologia diagnostica, dato che, come affermato dall’APA «buona parte della rimozione dello stigma dipende dalla scelta delle parole adatte. Sostituire “disturbo” con “disforia” nell’etichetta diagnostica non è solo più appropriato e coerente alla terminologia clinica familiare in sessuologia, ma serve anche a rimuovere la connotazione che il paziente sia “disturbato” » (APA, 2013b).

Dr Rossana Mazzilli

Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale